Il concerto è finito. Claudio Abbado solleva la mano sinistra, la musica ritorna nel gesto da cui era cominciata. Ma l’applauso non parte: il silenzio si dilata, accompagna la mano che rimane sospesa nell’aria e poi viene portata al petto con un gesto quasi doloroso.
Abbado abbassa gli occhi, come se parlasse a se stesso, poi li alza al cielo. Se vi siete mai chiesti che forma abbia l’assoluto, lo potete vedere in quell’istante attraverso i suoi occhi.
Lo stupore nel suo sguardo racconta che all’uomo è data la possibilità di volare molto in alto, per poi tornare a terra e meravigliarsi del proprio volo.
L’applauso arriva dopo quaranta secondi di silenzio, l’onoreficenza più grande che si possa conferire a un musicista.
Il concerto è il Requiem di Mozart, diretto a Lucerna nel 2012. Reduce dalla malattia con cui ha lottato dal 2000, Abbado sembra appeso alla bacchetta da direttore d’orchestra, come se fosse lei a sostenerlo, a tirarlo. A volte alza lo sguardo al cielo e si concede un sorriso beffardo. Scherza con l’infinito.
La vita di Abbado si è spesa tra queste altezze e l’impegno costante affinché potessero essere raggiunte da tutti. Il Sistema Nacional de Orquestras Juveniles e Infantiles de Venezuela, a cui ha dedicato molta cura, ha tolto dalla strada quattrocentomila bambini e ragazzi.
Ha portato orchestre nelle carceri, nelle fabbriche, negli ospedali. “La musica è necessaria alla vita”, diceva, “Può cambiarla, migliorarla, in alcuni casi addirittura salvarla”.
Non siamo mere funzioni sociali o economiche, ma una catena di persone che si tirano reciprocamente verso l’alto. Questa è l’umanità che ci insegna Claudio Abbado.
Testo: Francesca Frediani, 23.01.014